Benvenuto nel sito della camera di Firenze
 
ti trovi in:

Tu sei qui

» La Camera nella storia di Firenze

La Camera nella storia di Firenze


La Camera nella storia di Firenze

Il periodo granducale

Stemma del Granducato di Toscana

L'economia in Toscana

Al momento della nascita della Camera di Commercio fiorentina i trascorsi fasti rinascimentali erano ormai poco più che un ricordo. Nella Toscana del 1700 l'economia sembrava sprofondare in una fase di stagnazione quasi senza via d'uscita. I prodotti delle manifatture toscane cedevano sempre più il passo di fronte all'agguerrita concorrenza dei Paesi dell'Europa nord-occidentale: l'Inghilterra, l'Olanda e - soprattutto - la Francia, la quale andava occupando in quasi tutti i mercati europei quel posto di predominio commerciale che nei secoli precedenti era appartenuto all'Italia.
 
Piazza San FirenzeLa crisi delle manifatture nella nostra regione coinvolgeva in primo luogo i settori tradizionali dell'attività tessile: la lavorazione della lana, del cotone e - in minor misura - della seta. Tale crisi era connessa a molteplici fattori come la scarsa disponibilità di capitali, la disomogeneità del Granducato che comportava differenze di legislazione economica fra le varie province (con annessi intralci derivanti dall'esistenza di numerose dogane interne e relativi pedaggi, che si andavano ad aggiungere alle già numerose tasse e balzelli), i molti privilegi goduti da Firenze rispetto al resto del territorio. Ma soprattutto era la persistenza del sistema corporativo medievale delle "Arti" che ingabbiava l'intero tessuto economico in un groviglio di giurisdizioni e di regole spesso in conflitto fra loro e che ormai non avevano altra giustificazione se non la difesa di interessi particolari divenuti col tempo sostanzialmente parassitari.

Appariva con sempre maggiore evidenza alle menti più aperte che si occupavano di economia e della cosa pubblica come il sistema delle corporazioni costituiva un potente freno per il libero dispiegarsi delle forze produttive. Il Granduca Pietro Leopoldo, salito al trono appena diciottenne nel 1765 ed educato alle idee del liberismo economico, prestò da subito grandissima attenzione ai problemi dell'economia e dello sviluppo inaugurando, dopo una fase preparatoria di indagini conoscitive, una stagione di riforme economiche particolarmente innovative.

L'azione riformatrice di Pietro Leopoldo si mosse su diversi terreni: abolizione di privative e privilegi in modo da favorire la libera concorrenza nella produzione e nel commercio, riduzione delle numerose tasse esistenti, abolizione di dazi e dogane interne che ostacolavano la libera circolazione delle merci, rivalutazione dei centri minori e della campagna, interventi di riassetto territoriale come il miglioramento della rete viaria o le bonifiche in Maremma e Val di Chiana. In estrema sintesi, l'opera del giovane sovrano può essere vista sostanzialmente come uno sforzo volto alla semplificazione della vita economica e alla realizzazione delle migliori condizioni per la sua libera espressione.
 

La nascita della Camera di Commercio

È in questo quadro che nasce, prima in Italia, la Camera di Commercio di Firenze. Con motuproprio del 1° febbraio 1770 (PDF) Pietro Leopoldo abolì le varie Magistrature fiorentine che avevano giurisdizione sui diversi mestieri e ne riunì le competenze nella nuova "Camera di Commercio Arti e Manifatture di Firenze".
Tra le funzioni attribuite alla nuova Istituzione, particolarmente importanti furono quelle giudiziarie: la riunione delle diverse Magistrature in un unico organismo rese possibile l'unificazione dell'ordinamento giudiziario ed un migliore funzionamento della giustizia commerciale. Alla Camera venne attribuito il compito di favorire l'amichevole composizione delle controversie ed il potere di emettere sentenza non solo nelle cause economiche civili, ma anche in quelle "criminali", con facoltà di comminare condanne a pene pecuniarie in qualunque misura ed a pene "afflittive" fino al confino e all'esilio.

La Camera ebbe anche compiti di natura amministrativa come, ad esempio, la tenuta dei Registri degli artieri (che andavano a sostituire le "matricole" delle vecchie corporazioni), la vigilanza sulla osservanza delle disposizioni di legge in materia di economia, la concessione di aiuti alle manifatture per stimolarne l'innovazione.

Ma il terreno sul quale la neonata Istituzione fu chiamata ad esprimere un ruolo attivo nell'ambito del processo riformatore fu soprattutto quello della sua capacità conoscitiva e propositiva. Alla Camera veniva richiesto di essere costantemente informata sulla situazione economica interna, ma anche sulle condizioni in cui si svolgevano i traffici delle merci toscane all'estero (tipo e quantità dei prodotti e dei trafficanti, condizioni di scambio, tariffe doganali, trattati commerciali, leggi e consuetudini). Inoltre si richiedevano alla Camera pareri e suggerimenti sulle questioni economiche e sulle possibilità di semplificare leggi e regolamenti al fine di favorire l'attività produttiva e le contrattazioni.

 

La temporanea soppressione

In effetti la Camera fu abbastanza attiva in questo ruolo di consultazione, collaborando costantemente col Granduca sia nello studio dei vari problemi che nella divulgazione delle decisioni da questo di volta in volta adottate. Tuttavia, nell'esplicare questa funzione di raccordo fra Governo e mondo produttivo la Camera, già sorta invisa a quei cittadini che venivano spodestati dei loro privilegi, finì con l'attirarsi le antipatie anche di molti che, inizialmente favorevoli, temevano adesso l'affermarsi di un'altra Istituzione "forte" o - all'inverso - parassitaria, o comunque se ne sentivano minacciati nei loro interessi. E' così che Pietro Leopoldo, ritenendo peraltro che la Camera avesse ormai concluso il suo compito decisivo nella liquidazione delle vecchie corporazioni, a distanza di dodici anni dalla sua nascita ne decretò la soppressione nel febbraio 1782.

Gli ultimi due decenni del Settecento non furono particolarmente brillanti per l'economia granducale. L'agricoltura continuava a "tirare", ma le altre attività vivevano un periodo di incertezza. Il fatto è che la politica spiccatamente liberista di Pietro Leopoldo, se aveva dato buoni risultati sul piano del commercio interno, era tuttavia risultata troppo "spinta" per quanto riguardava gli scambi con l'estero. Le manifatture toscane, che forse avrebbero avuto bisogno di una maggiore protezione, continuarono ad essere schiacciate dalla concorrenza internazionale. Ciò ebbe ripercussioni soprattutto fra i ceti manifatturieri cittadini, il cui malcontento sfociò anche in violenti disordini di piazza.

Intanto Pietro Leopoldo, salito sul trono imperiale, aveva lasciato il Granducato al figlio, che gli successe nel 1791 con il nome di Ferdinando III. Il nuovo Granduca aveva cominciato ad apportare alcuni correttivi all'impianto riformatore del padre, pur senza stravolgerne la sostanza, ma il vento della Rivoluzione Francese soffiava già in tutta Europa ed anche il Granducato sarebbe stato presto coinvolto nella vicenda dell'espansione napoleonica.

 

La parentesi francese

Elisa Bonaparte BaciocchiNell'ottobre 1800 la Toscana venne occupata dall'esercito napoleonico. I Francesi, che tendevano a riproporre anche nei loro domìni i propri ordinamenti e criteri amministrativi, vollero anche in Toscana trapiantare le Camere di Commercio, questa volta sul modello francese con la designazione di membri in rappresentanza delle principali attività economiche locali e l'affiancamento di una Borsa degli Agenti di cambio e Sensali. Dopo l'istituzione della Camera di Commercio di Livorno (1801) e quella di una Camera consultiva di Commercio e Manifatture a Prato, avvenuta nell'agosto del 1808, l'Amministrazione francese riattivò nel settembre dello stesso anno anche la Camera di Commercio di Firenze.

La nuova Camera fiorentina ebbe funzioni più ampie rispetto alle consorelle toscane, tuttavia minori rispetto a quelle possedute nel periodo leopoldino, particolarmente per quanto riguardava l'amministrazione della giustizia. Composta da quindici membri (cinque banchieri, due fabbricanti e mediatori di stoffe di seta, due fabbricanti di stoffe di lana, un fabbricante di tessuti di lino, un gioielliere, uno stampatore di libri, un negoziante spedizioniere, un commerciante di "droghe" e un tappezziere), svolse con efficacia il proprio ruolo soprattutto attraverso una osservazione competente dell'economia, lo studio dei problemi e delle esigenze, il suggerimento di soluzioni e le proposte di interventi atti a favorire lo sviluppo industriale.

La Camera ebbe anche la gestione della Borsa di Commercio per gli Agenti di cambio e Sensali, che venne formalmente istituita nel gennaio 1809 ma che ebbe di fatto un'esistenza poco più che teorica, a causa della diffidenza serpeggiante fra gli operatori fiorentini in merito a questo nuovo organismo.

Durante questo periodo la Camera fiorentina cambiò sede più volte: da quella originaria, nel Palagio di Parte Guelfa, si trasferì prima nel Palazzo della Ruota in Piazza dei Giudici e successivamente in alcuni locali dei cosiddetti Uffizi Corti, dove rimase poi per alcuni decenni.

Gualchiere di RemoleUn fatto di notevole importanza, anche per i suoi sviluppi futuri proprio in rapporto alla questione della sede, fu l'assegnazione alla Camera nel 1812 del patrimonio della disciolta Arte della Lana (fino allora amministrato dall'Opera di S.Maria del Fiore); un patrimonio di rilevante valore che comprendeva fra l'altro quattro importantissimi edifici industriali ancora attivi: due "gualchiere" (quelle di Girone e di Remole, poste sulla riva sinistra dell'Arno, a monte di Firenze) e due "tiratoi" (quello dell'Uccello Grifagno e quello di Piazza d'Arno, in pieno centro urbano).

Tiratoio di Piazza d'Arno
Due anni dopo si concludeva il breve ma intenso periodo di dominazione francese. L'economia toscana si era mossa complessivamente in senso positivo: l'agricoltura aveva proseguito nel suo sviluppo, l'industria aveva manifestato una certa ripresa, anche se limitata ai traffici interni (non si esportavano quasi più prodotti finiti, ma principalmente materie prime e semilavorati). Tuttavia, dopo un primo decennio di relativa prosperità, le conseguenze negative degli sconvolgimenti politico-militari che accompagnarono il tramonto dell'impero napoleonico non mancarono di farsi sentire anche in Toscana. E' così che quando Ferdinando III tornò dall'esilio sul trono del Granducato trovò una situazione economica nuovamente deteriorata ed incerta.
 

La Restaurazione

Anche la Camera di Commercio rimase in una situazione di incertezza. Il fatto che fosse stata riportata in vita dai Francesi e con essi avesse collaborato non deponeva a suo favore presso il Granduca e i suoi ministri. Questi, d'altra parte, si rendevano ormai conto dell'utilità di una Istituzione che si ponesse come intermediaria fra il Governo e i ceti economicamente "emergenti", quanto meno per conoscerne i problemi e le aspirazioni. Agendo quindi con oculata prudenza, mantennero in vita la Camera fiorentina anche se, con una riforma del giugno 1818, le tolsero le funzioni amministrative mantenendo unicamente quelle consultive e di osservazione dei problemi economici. I membri (designati ex-novo) furono ridotti a dodici e potevano contare su un personale "operativo" composto da: un segretario, un commesso amanuense e un custode.

Ferdinando III regnò fino al 1824, anno in cui gli successe sul trono del Granducato il figlio Leopoldo II. Il nuovo sovrano si impegnò molto per il miglioramento dell'economia, ispirandosi con forza ai princìpi che erano stati di suo nonno, Pietro Leopoldo, e portandone a compimento alcune riforme ancora da completare. Come lui si adoperò per l'innovazione, per l'abolizione di privilegi e restrizioni e a favore del libero scambio (con maggiore prudenza, però, nei rapporti con l'estero) e come lui vide di buon occhio la funzione della Camera di Commercio, con la quale collaborò spesso, ascoltandola e fornendole tutti i mezzi necessari per lo svolgimento dell'attività.

Sotto Leopoldo II la Toscana conobbe un periodo di stabilità sociale e di floridezza economica. Si fecero progressi in tutti i campi, dall'agricoltura all'industria, al sistema di comunicazioni. Sono di questi anni:

  • l'introduzione del contratto di mezzadria nelle campagne
  • ulteriori bonifiche in Maremma
  • l'ampliamento e potenziamento del porto di Livorno
  • il potenziamento della rete viaria
  • la realizzazione di una rete ferroviaria di grande portata per i tempi(300 Km attraverso tutta la regione)
  • l'introduzione del telegrafo elettrico (il primo in Italia)
  • lo sfruttamento energetico dei soffioni boraciferi di Larderello
La ripresa industriale vide la riattivazione delle fonderie di rame a Massa Marittima, il potenziamento della metallurgia a Piombino e Follonica, l'espansione dell'industria laniera in Val di Bisenzio (e in particolare a Prato), di quella della seta tra Prato e Pescia, della cotoniera nell'area Pisa-Pontedera; si svilupparono la lavorazione della carta (nel pistoiese) e della paglia (a Firenze e dintorni) e si affermarono stabilimenti destinati a restare di grande prestigio come la fabbrica di ceramiche Ginori a Sesto Fiorentino.

Parallelamente a questo forte impulso produttivo, e in combinazione con esso, si venne sviluppando a grandi passi anche il sistema creditizio e bancario che in poco tempo raggiunse livelli qualitativi considerati d'avanguardia. Già Ferdinando III aveva creato nel 1816 la "Cassa di Sconto per l'Incoraggiamento dell'Industria Nazionale". Suo figlio Leopoldo II, esattamente dieci anni dopo, sostituì la Cassa con la "Banca di Sconto", una società "anonima" con mille azioni di cui un quarto sottoscritte dalla Stato. Questo Istituto, amministrato da tre Direttori di cui uno di nomina camerale, ebbe successo e nel 1857 diede vita, attraverso la fusione con la Banca di Sconto di Livorno, alla "Banca Nazionale Toscana". Quest'ultima, creata nel fuoco degli eventi determinati dal precipitare del processo di unificazione nazionale, resistette tuttavia al mutare della situazione politico-istituzionale e protrasse la propria attività fino alla creazione della Banca d'Italia nel 1893.

 

Il tramonto di un'epoca

Nella fase convulsa che precedette la nascita del nuovo Regno d'Italia, fase iniziata con gli avvenimenti del '48, la Camera di Commercio fiorentina svolse un ruolo importante di mediazione tra le esigenze del Governo granducale (che preparandosi ad una situazione d'emergenza con probabili implicazioni anche militari, premeva per lanciare ripetute sottoscrizioni di prestito pubblico) e il mondo degli operatori economici, i quali avrebbero dovuto essere sensibilizzati a sottoscrivere i titoli di credito emessi. Compito indubbiamente non facile - e in effetti ebbe alterni successi - dal momento che una parte sempre più ampia della borghesia ricca toscana, che in fondo la Camera in qualche modo rappresentava, era sempre più orientata a collocarsi nell'alveo del processo risorgimentale verso la creazione di un grande Stato Nazionale.

Nonostante le tensioni politiche interne ed estere, tuttavia, Leopoldo II non si sottrasse all'impegno di favorire l'economia attraverso uno sviluppo il più possibile ordinato delle sue Istituzioni. La creazione della Banca Nazionale Toscana, nel 1857, riportò d'attualità la questione della borsa valori (o "Borsa di Commercio", come al tempo si diceva), la quale venne deliberata lo stesso anno.

Sia la Banca Nazionale Toscana che la nuova Borsa avevano bisogno di una sede adeguata, come pure di una sede aveva bisogno la Camera di Commercio, cui spettava anche la gestione della Borsa e che nel suo peregrinare era passata dagli Uffizi Corti ad alcuni locali della Zecca Vecchia (poi trasformati in Regia Posta), assolutamente inadatti sia al ruolo che ai compiti da assolvere. Fu deciso di costruire un nuovo grande edificio, una sorta di "tempio dell'economia", nel quale ospitare tutte e tre le Istituzioni in questione.

Dopo varie ipotesi, la scelta cadde sull'area del Tiratoio di Piazza d'Arno, che era già proprietà della Camera di Commercio ed era compreso fra le attuali Piazza Mentana (all'epoca Piazza d'Arno) e Piazza dei Giudici. Malgrado l'utilità (era ancora in esercizio) ed il prestigio dell'edificio, da alcuni attribuito ad Arnolfo di Cambio, il Tiratoio venne demolito per far luogo alla nuova costruzione dove tuttora si trova la sede camerale.
Il palazzo, completato nell'autunno 1860, era ancora in costruzione quando Leopoldo II abbandonò Firenze, mentre la Toscana si preparava a una pacifica annessione al nuovo Stato italiano.

 

Dall'Unità d'Italia al secondo conflitto mondiale

Le insegne dei Savoia dopo l'Unità d'Italia

L'altalena di Firenze capitale

Con la costituzione del nuovo Stato Unitario, Firenze si trovò di colpo in un contesto più ampio, al quale forse non era sufficientemente preparata. In particolare, non essendo più Capitale di uno Stato sovrano, si trovò dopo lunghissimo tempo a non essere più sede di una Corte, con tutte le conseguenze del caso, sia psicologiche che, più concretamente, economiche. Con la partenza degli Asburgo Lorena veniva a mancare uno stuolo di committenti e di clienti preziosi per i mercanti e gli artigiani fiorentini. Veniva a mancare soprattutto, con l'allontanamento dei centri decisionali, il punto di riferimento politico fondamentale non solo per la classe nobiliare che si avviava verso un malinconico tramonto, ma anche per la stessa classe borghese, abituata ad un contatto più diretto con le leve governative ed ora alle prese con la difficoltà di farsi ascoltare da un potere più lontano.
 
Oltre tutto, la situazione generale del Paese appariva tutt'altro che florida agli esordi dello Stato Unitario: stasi demografica e stagnazione produttiva, sia industriale che agricola, si accompagnavano ad un crescente disavanzo del bilancio statale. Ed anche in Toscana si rifletteva la stessa congiuntura generale, portando un clima di delusione rispetto alle aspettative che inizialmente erano state riposte.
 
Vittorio Emanuele II, sotto la colonna posticcia allestita in Piazza Santa Maria Novella, saluta il popolo fiorentino togliendosi la felucaLa situazione a Firenze migliorò sensibilmente quando, nel 1865, la città fu scelta come nuova Capitale del Regno e sede del Governo nazionale. Si verificò un ritorno di ottimismo e di intraprendenza. L'insediamento a Firenze della Corte reale, del Parlamento (il nuovo Stato si era formato, infatti, come monarchia costituzionale a base parlamentare), dei diversi ministeri e relativa burocrazia, che portarono con sé l'arrivo di ambasciatori, giornalisti e uomini d'affari di ogni tipo, creò effettivamente una certa effervescenza nella vita economica cittadina.
 
Sembrò l'inizio di una nuova e importante fase di crescita, e la città cercò di misurarsi coraggiosamente con il livello di impegno richiesto dal suo nuovo ruolo. Firenze si diede un nuovo e funzionale assetto urbanistico (è di quegli anni il "sistema" dei Viali, progettati dal Poggi) ed iniziò una serie di interventi di "decoro" architettonico, ma -occorre dirlo- a spese dei ceti sociali più poveri del centro cittadino, volti a conferire alla città una immagine più "dignitosa" e consona al ruolo di una Capitale borghese. I Palazzi più prestigiosi furono quasi tutti destinati alle strutture dello Stato. Vittorio Emanuele II e la sua Corte si insediarono a Palazzo Pitti, mentre a Palazzo Vecchio fu stabilita la sede del Parlamento. Qui si riuniva la Camera dei Deputati, con i suoi cinquecento membri, dai quali prese il nome il noto Salone stupendamente affrescato.
 
La Camera di Commercio aveva da poco la sua nuova sede, voluta dal Granduca Leopoldo II: il palazzo sul Lungarno della Zecca, destinato anche alla Borsa e alla Banca Nazionale Toscana. La Camera fiorentina visse nei primi anni dell'Unità un periodo finanziariamente travagliato, anche a causa di impegni imprevisti. Proprio riguardo al nuovo edificio, i primi rapporti del Regno d'Italia con la Camera di Commercio non furono improntati alla massima simpatia: furono infatti rimessi in discussione gli accordi a suo tempo stabiliti fra la Camera e il Governo granducale ed il nuovo Stato pretese dalla Camera fiorentina l'ulteriore pagamento di 170.000 Lire italiane.
 
Per altro verso, il nuovo Regno era sensibile in senso più generale alla questione e al ruolo delle Camere di Commercio, tanto che già nel 1862 promulgò una legge che, per la prima volta, dava una fisionomia abbastanza precisa ed uniforme a tutte le 27 Camere di Commercio allora esistenti in Italia e che restò in vigore sostanzialmente immutata per circa mezzo secolo. Ciò ovviamente rientrava nello sforzo di realizzare, dopo quella politica e militare, anche l'unità amministrativa del Paese. Con ulteriori decreti, vennero istituite nuove Camere o furono riordinate quelle esistenti. Con uno di questi decreti fu riordinata nell'ottobre 1862 anche quella fiorentina, attribuendole competenza sulle province di Firenze, Grosseto e Siena.
 
"Forte" di una pianta organica di 9 impiegati amministrativi, la Camera di Commercio doveva: presentare al Governo informazioni e proposte; pubblicare annualmente una relazione statistica; compilare i ruoli di periti per le materie commerciali; gestire la Borsa di commercio; vigilare sull'osservanza di leggi in materia di mediazioni, cambio, ecc.; prendere iniziative nel campo della formazione professionale; organizzare e partecipare ad esposizioni e manifestazioni commerciali; esercitare, all'occorrenza, altre attività come la gestione di empori pubblici, di magazzini per il deposito delle merci, di uffici per il controllo della qualità dei prodotti, ecc.
La Borsa, istituita formalmente nel 1861, cominciò di fatto ad operare concretamente solo nel 1863, inizialmente con risultati modesti, ma tuttavia con sufficiente regolarità. L'attività migliorò sensibilmente con l'arrivo a Firenze della Capitale: numerosi istituti di credito "forestieri" stabilirono proprie sedi in città ed anche i locali della Borsa, in conseguenza dell'aumentato volume degli affari, risultarono molto più frequentati. Oltre alla gestione della Borsa, negli anni di Firenze Capitale la Camera di Commercio svolse una intensa attività: avanzò osservazioni in materia legislativa fiscale, analizzò trattati commerciali internazionali ed elaborò proposte di modifica, formulò suggerimenti riguardo ai problemi del debito pubblico e in materia finanziaria, si occupò del riassetto e dello sviluppo delle Scuole di formazione professionale, organizzò la partecipazione degli operatori fiorentini ad importanti manifestazioni nazionali ed internazionali.
 
Ma la stagione di Firenze Capitale morì sul nascere. Dopo soli cinque anni, nel 1870, la Capitale venne portata a Roma lasciando improvvisamente un vuoto di iniziative e di prospettive. Firenze ripiegò su se stessa. Molte opere già iniziate furono "dignitosamente" portate a compimento, ma innegabilmente un clima di delusione e sfiducia si diffuse nell'intera cittadinanza fiorentina. Con il trasferimento di un gran numero di famiglie e di molti Istituti finanziari e culturali si verificò una battuta d'arresto per l'attività edilizia e per il commercio e, poi, anche per molte attività produttive legate alla committenza pubblica o che comunque risentivano dell´ "afflosciamento" del settore creditizio.
Un segno tangibile del deteriorarsi della situazione fu manifestato dal malfunzionamento della Borsa Valori, dove si verificarono gravi infrazioni ai regolamenti e spesso anche disordini, al punto che la Camera per evitare di chiuderla ne affidò la sorveglianza alle Autorità di pubblica sicurezza. Una certa regolarità ed un lieve miglioramento della partecipazione si ebbe solo dopo il 1876, a seguito della promulgazione di due leggi nazionali sulle Borse Valori.
 
La Camera di Commercio visse quell'ultimo scorcio di secolo con una attività di basso profilo, sostanzialmente di "ordinaria amministrazione". Del resto la situazione economica andava sempre più aggravandosi sia sul piano interno che su quello internazionale: il processo di industrializzazione avanzava con lentezza; alcuni settori anzi (come la metallurgia e l'edilizia) attraversavano un periodo di crisi; l'agricoltura, che a quei tempi era un settore di decisiva importanza, già da tempo in difficoltà, fu messa in ginocchio dalla guerra commerciale con la Francia e dalla conseguente politica protezionistica che portò sostanzialmente al blocco delle esportazioni. Le tensioni internazionali ebbero conseguenze significative anche sul piano finanziario (con un aperto boicottaggio dei titoli italiani in Francia ed il ritiro dei capitali francesi dall'Italia), cui si aggiunse anche una pesante crisi bancaria che coinvolse due importanti Istituti di livello nazionale.
 
Nonostante il cambiamento politico che aveva portato al potere la Sinistra Storica, prima con Agostino Depretis e poi con Francesco Crispi, che doveva segnare sul piano economico il passaggio da una concezione fortemente dirigistica ad una nella quale lo Stato doveva porsi al servizio delle forze economiche dominanti ed assecondarne le tendenze, la modernizzazione del giovane Stato italiano stentava a decollare. Occorrerà, per questo, aspettare la fine del secolo e l'ascesa di un uomo nuovo, di seconda generazione rispetto alla classe dirigente risorgimentale e non compromesso con i vecchi blocchi di alleanze sociali: Giovanni Giolitti.
 

L'epoca Giolittiana

Dopo una breve e discussa esperienza di governo come Primo ministro negli anni 1892-93 (fu costretto a dimettersi, travolto dallo scandalo della Banca Romana, anche se la sua corruzione non venne mai ufficialmente provata), Giovanni Giolitti tornò in auge prima come Ministro dell'Interno del Governo Zanardelli (1899) e successivamente ancora come Primo ministro, nel 1903.
 
Dopo la fase fortemente repressiva ed antidemocratica che aveva caratterizzato gli ultimi governi di Crispi, Rudinì e -soprattutto- Pelloux, il nuovo Re Vittorio Emanuele III, succeduto al padre Umberto I assassinato a Monza dall'anarchico pratese Gaetano Bresci, operò una svolta politica chiamando al Governo gli esponenti liberali più aperti alla comprensione dei fermenti sociali che sempre più scuotevano anche l'Italia.
 
Pellizza da Volpedo, "Il Quarto Stato". Il dipinto, esposto nel 1902 alla Quadriennale torinese, suscitò scalpore e polemicheNelle campagne le masse contadine si erano impoverite e, sia pure in situazioni e con rivendicazioni diverse da Nord a Sud, davano vita ad un movimento che "a pelle di leopardo" abbracciava quasi tutto il Paese. Nelle grandi città, soprattutto al Nord, ma anche al Centro, si era ormai formata la base di un vero e proprio proletariato industriale, già organizzato e combattivo, destinato a crescere rapidamente sia sul piano numerico e delle dinamiche sociali che per il suo ruolo di protagonista politico.
 
Giolitti, uomo che era giunto in politica da una carriera intensa svolta nella Pubblica Amministrazione, che aveva dunque una impostazione pragmatica e non eccessivamente legata ai valori ideologici della borghesia risorgimentale, intuiva l'ampiezza e la nuova complessità dei problemi e, soprattutto, aveva una certa consapevolezza che proprio il conflitto sociale, se opportunamente "governato", costituiva la molla per un più deciso sviluppo dell'economia e del Paese.
 
La sua filosofia era quella di conciliare interessi anche contrapposti in un comune processo di sviluppo economico e civile. Lo Stato, arbitro imparziale nei conflitti di classe, doveva da un lato consentire l'organizzazione e la libera espressione dei movimenti sociali e sindacali, dall'altro lato garantire la legalità, la libertà di impresa ed un sostegno attivo all'espansione industriale. Sul piano politico questa filosofia si espresse con i suoi tentativi (quasi sempre falliti) di cooptare nelle responsabilità di governo anche esponenti della Sinistra più estrema; sul piano economico e sociale permise di elevare le condizioni materiali e i diritti delle classi lavoratrici, fornendo in cambio aiuti consistenti alla borghesia industriale. Di fatto tentò, e in una certa misura riuscì, di realizzare una sorta di alleanza affatto nuova, un blocco sociale fra classe operaia e borghesia industriale, a scapito dei ceti più parassitari, soprattutto i proprietari latifondisti che tanto peso avevano avuto nei decenni precedenti, ma che restavano ancorati ad una visione della società tutta inscritta nel secolo appena trascorso. Mentre l'attenzione si spostava nettamente sui problemi dell'industria, il settore agricolo, stretto fra l'assenteismo dei grandi proprietari (specialmente nel Mezzogiorno) e la notevole spinta alla meccanizzazione nelle aree di sviluppo, subiva una vera e propria emorragia di forza lavoro. L'emigrazione, che aveva cominciato a svilupparsi già all'indomani dell'Unità d'Italia, conobbe in questi anni i suoi massimi storici: tra il 1900 ed il 1915 emigrarono quasi 9 milioni di Italiani, 860.000 solo nel 1913, su una popolazione di circa 25 milioni.
 
La Fonderia del Pignone in una foto degli anni TrentaNel periodo giolittiano, complice anche il miglioramento intervenuto nelle relazioni commerciali internazionali (la "guerra" con la Francia si era conclusa nel 1895), l'Italia attraversò una fase di intenso sviluppo i cui effetti si manifestarono anche nella nostra regione. All'inizio del Novecento l'economia toscana era ancora prevalentemente agricola, il tessuto produttivo industriale era costituito quasi totalmente di imprese artigianali o semi-artigianali. Questa caratteristica, che resisterà poi a lungo (si può dire fino ai giorni nostri) con risvolti che per certi aspetti si riveleranno positivi, si accompagnava tuttavia ad una certa debolezza strutturale del settore, dal momento che il numero delle grandi imprese era a quell'epoca veramente esiguo: la Manifattura Ginori a Sesto Fiorentino, la Fonderia del Pignone a Firenze, la vetreria Saint Gobain a Pisa, i Cantieri Orlando a Livorno, qualche industria tessile nel pratese e nel lucchese.
 
Ma già i risultati del primo Censimento industriale, nel 1911, mostravano un netto potenziamento dell'industria toscana. Si sviluppò notevolmente la produzione di energia elettrica e giocò un ruolo determinante lo sfruttamento delle molte risorse minerarie della regione, dal ferro dell'Elba, al mercurio dell'Amiata, al marmo apuano. In campo siderurgico la Toscana acquisì un primato incontrastato: nel 1912 produceva il 90% del minerale di ferro, l'80% della ghisa ed il 20% dell'acciaio sul totale nazionale. Queste risorse "di base" lanciarono lo sviluppo di tutta una serie di attività industriali: meccanica, ovviamente, ma anche carta, laterizi, cuoio, via via fino a quei settori già consolidati come il tessile (è di questi anni la nascita del famoso "Fabbricone" di Prato). La "maturazione" in corso del sistema industriale toscano è testimoniata peraltro dal fatto che si verificò anche una spinta alla concentrazione sia tecnica che finanziaria ed un discreto proliferare delle cosiddette "società anonime", le antesignane delle attuali società per azioni.
 
Con il nuovo secolo la Camera di Commercio fiorentina, dopo un periodo non particolarmente brillante, sviluppò un'attività più intensa e a più vasto raggio. Come si può leggere in un Annuario camerale del 1909, oltre alle varie funzioni di carattere generale, essa all'epoca:
  • forniva agli operatori informazioni sulle tariffe doganali
  • forniva informazioni sulle imposte di consumo e sulle tariffe di trasporto
  • forniva, a richiesta, elenchi delle migliori ditte operanti nei diversi settori
  • dava notizia dei prezzi delle merci
  • forniva informazioni sulla moralità e solvibilità delle imprese
  • dava notizia dei fallimenti e protesti cambiari
  • dava comunicazioni sulle ditte e società legalmente costituite
  • esercitava una attività di conciliazione e arbitraggio nelle controversie commerciali
  • dava notizia delle principali aste ed appalti
  • autenticava firme e rilasciava certificati di idoneità per concorrere agli incanti pubblici
  • curava la pubblicazione di un Bollettino di informazioni
  • teneva aperta al pubblico una Biblioteca, ricca di pubblicazioni ufficiali, annuari, cataloghi, ecc.
La Camera si impegnò molto nella redazione di memorie ed osservazioni, spesso indirizzate agli Organi governativi, e soprattutto nel sostegno attivo all'istruzione professionale, partecipando alla gestione e finanziamento di diverse scuole, tra cui la Scuola di Tessitura a Prato, la Scuola delle Arti decorative a Firenze, la Scuola Professionale femminile e quella Tecnica commerciale femminile, sempre a Firenze, e la Scuola professionale Pacinotti a Pistoia.
 
Questo maggiore impegno nel settore dell'istruzione, anche femminile, in chiave con il clima dell'epoca giolittiana, denotava un atteggiamento anche da parte della Camera fiorentina più aperto ai problemi sociali, tanto che ad un certo punto fu presa in considerazione perfino l'ipotesi - in verità poi non realizzata - di costituire sotto l'egida camerale una sorta di Camera del Lavoro, un organismo che desse voce e rappresentanza alla classe operaia.
 
Ebbe maggior fortuna, invece, un'altra iniziativa richiesta alla Camera dagli operatori commerciali che trattavano i principali prodotti alimentari sulla "piazza" di Firenze, e cioè l'istituzione di una Sala per le contrattazioni: quella che poi avrebbe preso il nome, col quale tuttora è conosciuta, di Borsa Merci. La Sala cominciò a funzionare nel 1905 ed ebbe sede al n.14 di via Condotta. Sempre nel campo delle "borse di commercio" si deve poi ricordare la legge del 1913 che riordinò le Borse Valori su scala nazionale, dando nuovo impulso alla loro attività.
 
L'azione di riforma aveva peraltro già toccato tre anni prima il sistema camerale, ancora fermo ai provvedimenti del 1862. Quella del 1910 fu una legge veramente innovativa per il sistema delle Camere di Commercio che videro ampliare notevolmente il loro ambito di competenza. Agli enti camerali, che assumevano formalmente la nuova denominazione di "Camere di Commercio e Industria", vennero attribuite molte nuove ed importanti funzioni, tra cui la redazione dei Listini dei prezzi, l'accertamento degli usi commerciali locali, la certificazione di origine delle merci.
 
Ma la novità più importante fu rappresentata dalla istituzione del Registro delle Ditte ed il relativo obbligo di iscrizione per chiunque, in qualunque forma, esercitasse una attività industriale o commerciale.
La riforma del 1910 conferiva alle Camere un prestigio fino allora mai avuto, anche se le poneva sotto una maggiore tutela e controllo da parte governativa. Ma ciò era una ovvia e necessaria conseguenza del fatto che le nuove ed accresciute funzioni attribuite alle Camere si configuravano come un'attività di tipo "pubblicistico". Il riconoscimento formale alle Camere di Commercio della qualifica di enti pubblici venne poi più esplicitamente dichiarato con una successiva legge del 1924, uno degli ultimi provvedimenti presi dal Parlamento Italiano, nel clima convulso che accompagnò l'esautorazione del Parlamento stesso e l'ascesa del fascismo.
 

Il ventennio fascista

Quasi subito il fascismo si occupò delle Camere di Commercio. Queste, dove ancora vigeva l'abitudine a recepire "dal basso" i problemi e le esigenze del tessuto produttivo locale per rappresentarli ai livelli più alti dell'Amministrazione, si collocavano male nel quadro di una concezione fortemente accentrata ed autoritaria sia delle Istituzioni che dell'economia. Ed infatti, già nel 1926, furono abolite con la legge che in loro vece istituiva i "Consigli provinciali dell'economia".
 
Questi ultimi ebbero fondamentalmente il compito di trasferire sul piano locale gli orientamenti centrali, secondo i concetti di una "economia disciplinata, controllata e in definitiva imposta", in armonia con gli "interessi della Nazione". Furono trasformati nei "Consigli provinciali dell'economia corporativa" e quindi, nel 1937, assunsero la definitiva denominazione di "Consigli Provinciali delle Corporazioni".
 
Ma le corporazioni fasciste erano cosa ben diversa dalle corporazioni delle "Arti" che avevano caratterizzato l'economia fiorentina dal Duecento al Settecento. Le antiche Arti medievali, raccogliendo i cittadini che avevano in comune un mestiere e gli interessi ad esso collegati, nascevano dal corpo vivo della società e proprio da questa concreta vitalità economica traevano la loro forza anche politica. Con le corporazioni fasciste si può dire che il rapporto sia completamente rovesciato: è la politica che, attraverso le corporazioni, esercita uno stretto controllo sull'economia. L'identità del termine "corporazioni" vuole sottolineare lo spirito "di corpo" che dovrebbe caratterizzare i diversi settori produttivi accomunando datori di lavoro e lavoratori. In realtà questi ultimi, seppure formalmente rappresentati nelle corporazioni, non hanno alcuna voce in capitolo. I loro rappresentanti, persone "gradite" al regime, hanno solo la funzione di avallare le scelte già compiute.
 
A Firenze, l'insediamento del primo Consiglio Provinciale dell'Economia avvenne nel giugno 1928, con una solenne cerimonia in Palazzo Vecchio. La sede rimaneva quella camerale, presso cui - per inciso - già dal 1922 era ospitato in un mezzanino il partito fascista. Sorto alla vigilia di una grande crisi economica internazionale (la crisi del '29), il Consiglio Provinciale ebbe un avvio non facile, come del resto quelli di tutte le altre province, anche a causa della struttura burocratico-amministrativa particolarmente macchinosa. La nuova funzione, più direttamente politica, si portava dietro come corollario una maggiore complessità di livelli di controllo e di procedure, che si andavano a sommare ai consueti compiti svolti ordinariamente dalla disciolta Camera di Commercio.
 
Fra le realizzazioni che meritano di essere ricordate vi sono: sul piano amministrativo, la trasformazione in Istituzione ufficiale della Borsa Merci, che aumentò notevolmente la propria importanza nell'economia fiorentina con i suoi mercati del martedì e del venerdì; sul piano delle strutture, gli interventi di ristrutturazione della sede sul lungarno con la sopraelevazione dell'edificio e la realizzazione del nuovo salone della Borsa Valori. Per il resto, come gli altri Consigli, anche quello fiorentino svolse un'azione fortemente e costantemente condizionata dall'evoluzione politica nazionale. Così, partecipò attivamente alla cosiddetta "Campagna del grano", fu particolarmente impegnato nell'attuazione dell'Autarchia, ad esempio sostenendo la nascita di nuove industrie come quella del Rayon, ebbe un ruolo di supporto allo sforzo bellico nel corso della Seconda Guerra Mondiale svolgendo compiti di requisizione, contingentamento e razionamento.
 
La caduta del fascismo, la lotta di liberazione nazionale e la fine della guerra posero fine anche all'esperienza dei Consigli provinciali delle corporazioni, dalle cui ceneri rinacquero le Camere di Commercio. La sede di quella fiorentina rischiò veramente di andare in cenere, stretta dal fuoco delle mine tedesche. Così Piero Bargellini, uno dei sindaci più amati dai fiorentini, descrive quegli eventi:
"Nella notte tra il 3 e il 4 agosto (1944, ndr) i ponti minati, tranne il Ponte Vecchio, saltarono e con essi saltarono le case di Por Santa Maria, di via Guicciardini, di via de' Bardi e di Borgo San Jacopo. La Camera di Commercio, che si trovava con la Borsa Valori sul Lungarno, nei pressi del Ponte alle Grazie, venne prima sgombrata dei documenti più importanti, poi scossa dalle mine e infine depredata durante la battaglia di Firenze, durata 25 giorni. Quando il Comitato di Liberazione nominò al posto del Prefetto fascista il nuovo Presidente e la nuova Giunta, era necessario non soltanto riordinare burocraticamente l'istituto in senso democratico, ma anche restaurare l'edificio".
 
Testo di Pasquale Ielo
 
Valuta il contenuto: 
5
Average: 5 (2 votes)
Contenuto aggiornato al:Mercoledì, 5 Maggio, 2021 - 09:43