Dall'Unità d'Italia al secondo conflitto mondiale
L'altalena di Firenze capitale
Con la costituzione del nuovo Stato Unitario, Firenze si trovò di colpo in un contesto più ampio, al quale forse non era sufficientemente preparata. In particolare, non essendo più Capitale di uno Stato sovrano, si trovò dopo lunghissimo tempo a non essere più sede di una Corte, con tutte le conseguenze del caso, sia psicologiche che, più concretamente, economiche. Con la partenza degli Asburgo Lorena veniva a mancare uno stuolo di committenti e di clienti preziosi per i mercanti e gli artigiani fiorentini. Veniva a mancare soprattutto, con l'allontanamento dei centri decisionali, il punto di riferimento politico fondamentale non solo per la classe nobiliare che si avviava verso un malinconico tramonto, ma anche per la stessa classe borghese, abituata ad un contatto più diretto con le leve governative ed ora alle prese con la difficoltà di farsi ascoltare da un potere più lontano.
Oltre tutto, la situazione generale del Paese appariva tutt'altro che florida agli esordi dello Stato Unitario: stasi demografica e stagnazione produttiva, sia industriale che agricola, si accompagnavano ad un crescente disavanzo del bilancio statale. Ed anche in Toscana si rifletteva la stessa congiuntura generale, portando un clima di delusione rispetto alle aspettative che inizialmente erano state riposte.
La situazione a Firenze migliorò sensibilmente quando, nel 1865, la città fu scelta come nuova Capitale del Regno e sede del Governo nazionale. Si verificò un ritorno di ottimismo e di intraprendenza. L'insediamento a Firenze della Corte reale, del Parlamento (il nuovo Stato si era formato, infatti, come monarchia costituzionale a base parlamentare), dei diversi ministeri e relativa burocrazia, che portarono con sé l'arrivo di ambasciatori, giornalisti e uomini d'affari di ogni tipo, creò effettivamente una certa effervescenza nella vita economica cittadina.
Sembrò l'inizio di una nuova e importante fase di crescita, e la città cercò di misurarsi coraggiosamente con il livello di impegno richiesto dal suo nuovo ruolo. Firenze si diede un nuovo e funzionale assetto urbanistico (è di quegli anni il "sistema" dei Viali, progettati dal Poggi) ed iniziò una serie di interventi di "decoro" architettonico, ma -occorre dirlo- a spese dei ceti sociali più poveri del centro cittadino, volti a conferire alla città una immagine più "dignitosa" e consona al ruolo di una Capitale borghese. I Palazzi più prestigiosi furono quasi tutti destinati alle strutture dello Stato. Vittorio Emanuele II e la sua Corte si insediarono a Palazzo Pitti, mentre a Palazzo Vecchio fu stabilita la sede del Parlamento. Qui si riuniva la Camera dei Deputati, con i suoi cinquecento membri, dai quali prese il nome il noto Salone stupendamente affrescato.
La Camera di Commercio aveva da poco la sua nuova sede, voluta dal Granduca Leopoldo II: il palazzo sul Lungarno della Zecca, destinato anche alla Borsa e alla Banca Nazionale Toscana. La Camera fiorentina visse nei primi anni dell'Unità un periodo finanziariamente travagliato, anche a causa di impegni imprevisti. Proprio riguardo al nuovo edificio, i primi rapporti del Regno d'Italia con la Camera di Commercio non furono improntati alla massima simpatia: furono infatti rimessi in discussione gli accordi a suo tempo stabiliti fra la Camera e il Governo granducale ed il nuovo Stato pretese dalla Camera fiorentina l'ulteriore pagamento di 170.000 Lire italiane.
Per altro verso, il nuovo Regno era sensibile in senso più generale alla questione e al ruolo delle Camere di Commercio, tanto che già nel 1862 promulgò una legge che, per la prima volta, dava una fisionomia abbastanza precisa ed uniforme a tutte le 27 Camere di Commercio allora esistenti in Italia e che restò in vigore sostanzialmente immutata per circa mezzo secolo. Ciò ovviamente rientrava nello sforzo di realizzare, dopo quella politica e militare, anche l'unità amministrativa del Paese. Con ulteriori decreti, vennero istituite nuove Camere o furono riordinate quelle esistenti. Con uno di questi decreti fu riordinata nell'ottobre 1862 anche quella fiorentina, attribuendole competenza sulle province di Firenze, Grosseto e Siena.
"Forte" di una pianta organica di 9 impiegati amministrativi, la Camera di Commercio doveva: presentare al Governo informazioni e proposte; pubblicare annualmente una relazione statistica; compilare i ruoli di periti per le materie commerciali; gestire la Borsa di commercio; vigilare sull'osservanza di leggi in materia di mediazioni, cambio, ecc.; prendere iniziative nel campo della formazione professionale; organizzare e partecipare ad esposizioni e manifestazioni commerciali; esercitare, all'occorrenza, altre attività come la gestione di empori pubblici, di magazzini per il deposito delle merci, di uffici per il controllo della qualità dei prodotti, ecc.
La Borsa, istituita formalmente nel 1861, cominciò di fatto ad operare concretamente solo nel 1863, inizialmente con risultati modesti, ma tuttavia con sufficiente regolarità. L'attività migliorò sensibilmente con l'arrivo a Firenze della Capitale: numerosi istituti di credito "forestieri" stabilirono proprie sedi in città ed anche i locali della Borsa, in conseguenza dell'aumentato volume degli affari, risultarono molto più frequentati. Oltre alla gestione della Borsa, negli anni di Firenze Capitale la Camera di Commercio svolse una intensa attività: avanzò osservazioni in materia legislativa fiscale, analizzò trattati commerciali internazionali ed elaborò proposte di modifica, formulò suggerimenti riguardo ai problemi del debito pubblico e in materia finanziaria, si occupò del riassetto e dello sviluppo delle Scuole di formazione professionale, organizzò la partecipazione degli operatori fiorentini ad importanti manifestazioni nazionali ed internazionali.
Ma la stagione di Firenze Capitale morì sul nascere. Dopo soli cinque anni, nel 1870, la Capitale venne portata a Roma lasciando improvvisamente un vuoto di iniziative e di prospettive. Firenze ripiegò su se stessa. Molte opere già iniziate furono "dignitosamente" portate a compimento, ma innegabilmente un clima di delusione e sfiducia si diffuse nell'intera cittadinanza fiorentina. Con il trasferimento di un gran numero di famiglie e di molti Istituti finanziari e culturali si verificò una battuta d'arresto per l'attività edilizia e per il commercio e, poi, anche per molte attività produttive legate alla committenza pubblica o che comunque risentivano dell´ "afflosciamento" del settore creditizio.
Un segno tangibile del deteriorarsi della situazione fu manifestato dal malfunzionamento della Borsa Valori, dove si verificarono gravi infrazioni ai regolamenti e spesso anche disordini, al punto che la Camera per evitare di chiuderla ne affidò la sorveglianza alle Autorità di pubblica sicurezza. Una certa regolarità ed un lieve miglioramento della partecipazione si ebbe solo dopo il 1876, a seguito della promulgazione di due leggi nazionali sulle Borse Valori.
La Camera di Commercio visse quell'ultimo scorcio di secolo con una attività di basso profilo, sostanzialmente di "ordinaria amministrazione". Del resto la situazione economica andava sempre più aggravandosi sia sul piano interno che su quello internazionale: il processo di industrializzazione avanzava con lentezza; alcuni settori anzi (come la metallurgia e l'edilizia) attraversavano un periodo di crisi; l'agricoltura, che a quei tempi era un settore di decisiva importanza, già da tempo in difficoltà, fu messa in ginocchio dalla guerra commerciale con la Francia e dalla conseguente politica protezionistica che portò sostanzialmente al blocco delle esportazioni. Le tensioni internazionali ebbero conseguenze significative anche sul piano finanziario (con un aperto boicottaggio dei titoli italiani in Francia ed il ritiro dei capitali francesi dall'Italia), cui si aggiunse anche una pesante crisi bancaria che coinvolse due importanti Istituti di livello nazionale.
Nonostante il cambiamento politico che aveva portato al potere la Sinistra Storica, prima con Agostino Depretis e poi con Francesco Crispi, che doveva segnare sul piano economico il passaggio da una concezione fortemente dirigistica ad una nella quale lo Stato doveva porsi al servizio delle forze economiche dominanti ed assecondarne le tendenze, la modernizzazione del giovane Stato italiano stentava a decollare. Occorrerà, per questo, aspettare la fine del secolo e l'ascesa di un uomo nuovo, di seconda generazione rispetto alla classe dirigente risorgimentale e non compromesso con i vecchi blocchi di alleanze sociali: Giovanni Giolitti.
L'epoca Giolittiana
Dopo una breve e discussa esperienza di governo come Primo ministro negli anni 1892-93 (fu costretto a dimettersi, travolto dallo scandalo della Banca Romana, anche se la sua corruzione non venne mai ufficialmente provata), Giovanni Giolitti tornò in auge prima come Ministro dell'Interno del Governo Zanardelli (1899) e successivamente ancora come Primo ministro, nel 1903.
Dopo la fase fortemente repressiva ed antidemocratica che aveva caratterizzato gli ultimi governi di Crispi, Rudinì e -soprattutto- Pelloux, il nuovo Re Vittorio Emanuele III, succeduto al padre Umberto I assassinato a Monza dall'anarchico pratese Gaetano Bresci, operò una svolta politica chiamando al Governo gli esponenti liberali più aperti alla comprensione dei fermenti sociali che sempre più scuotevano anche l'Italia.
Nelle campagne le masse contadine si erano impoverite e, sia pure in situazioni e con rivendicazioni diverse da Nord a Sud, davano vita ad un movimento che "a pelle di leopardo" abbracciava quasi tutto il Paese. Nelle grandi città, soprattutto al Nord, ma anche al Centro, si era ormai formata la base di un vero e proprio proletariato industriale, già organizzato e combattivo, destinato a crescere rapidamente sia sul piano numerico e delle dinamiche sociali che per il suo ruolo di protagonista politico.
Giolitti, uomo che era giunto in politica da una carriera intensa svolta nella Pubblica Amministrazione, che aveva dunque una impostazione pragmatica e non eccessivamente legata ai valori ideologici della borghesia risorgimentale, intuiva l'ampiezza e la nuova complessità dei problemi e, soprattutto, aveva una certa consapevolezza che proprio il conflitto sociale, se opportunamente "governato", costituiva la molla per un più deciso sviluppo dell'economia e del Paese.
La sua filosofia era quella di conciliare interessi anche contrapposti in un comune processo di sviluppo economico e civile. Lo Stato, arbitro imparziale nei conflitti di classe, doveva da un lato consentire l'organizzazione e la libera espressione dei movimenti sociali e sindacali, dall'altro lato garantire la legalità, la libertà di impresa ed un sostegno attivo all'espansione industriale. Sul piano politico questa filosofia si espresse con i suoi tentativi (quasi sempre falliti) di cooptare nelle responsabilità di governo anche esponenti della Sinistra più estrema; sul piano economico e sociale permise di elevare le condizioni materiali e i diritti delle classi lavoratrici, fornendo in cambio aiuti consistenti alla borghesia industriale. Di fatto tentò, e in una certa misura riuscì, di realizzare una sorta di alleanza affatto nuova, un blocco sociale fra classe operaia e borghesia industriale, a scapito dei ceti più parassitari, soprattutto i proprietari latifondisti che tanto peso avevano avuto nei decenni precedenti, ma che restavano ancorati ad una visione della società tutta inscritta nel secolo appena trascorso. Mentre l'attenzione si spostava nettamente sui problemi dell'industria, il settore agricolo, stretto fra l'assenteismo dei grandi proprietari (specialmente nel Mezzogiorno) e la notevole spinta alla meccanizzazione nelle aree di sviluppo, subiva una vera e propria emorragia di forza lavoro. L'emigrazione, che aveva cominciato a svilupparsi già all'indomani dell'Unità d'Italia, conobbe in questi anni i suoi massimi storici: tra il 1900 ed il 1915 emigrarono quasi 9 milioni di Italiani, 860.000 solo nel 1913, su una popolazione di circa 25 milioni.
Nel periodo giolittiano, complice anche il miglioramento intervenuto nelle relazioni commerciali internazionali (la "guerra" con la Francia si era conclusa nel 1895), l'Italia attraversò una fase di intenso sviluppo i cui effetti si manifestarono anche nella nostra regione. All'inizio del Novecento l'economia toscana era ancora prevalentemente agricola, il tessuto produttivo industriale era costituito quasi totalmente di imprese artigianali o semi-artigianali. Questa caratteristica, che resisterà poi a lungo (si può dire fino ai giorni nostri) con risvolti che per certi aspetti si riveleranno positivi, si accompagnava tuttavia ad una certa debolezza strutturale del settore, dal momento che il numero delle grandi imprese era a quell'epoca veramente esiguo: la Manifattura Ginori a Sesto Fiorentino, la Fonderia del Pignone a Firenze, la vetreria Saint Gobain a Pisa, i Cantieri Orlando a Livorno, qualche industria tessile nel pratese e nel lucchese.
Ma già i risultati del primo Censimento industriale, nel 1911, mostravano un netto potenziamento dell'industria toscana. Si sviluppò notevolmente la produzione di energia elettrica e giocò un ruolo determinante lo sfruttamento delle molte risorse minerarie della regione, dal ferro dell'Elba, al mercurio dell'Amiata, al marmo apuano. In campo siderurgico la Toscana acquisì un primato incontrastato: nel 1912 produceva il 90% del minerale di ferro, l'80% della ghisa ed il 20% dell'acciaio sul totale nazionale. Queste risorse "di base" lanciarono lo sviluppo di tutta una serie di attività industriali: meccanica, ovviamente, ma anche carta, laterizi, cuoio, via via fino a quei settori già consolidati come il tessile (è di questi anni la nascita del famoso "Fabbricone" di Prato). La "maturazione" in corso del sistema industriale toscano è testimoniata peraltro dal fatto che si verificò anche una spinta alla concentrazione sia tecnica che finanziaria ed un discreto proliferare delle cosiddette "società anonime", le antesignane delle attuali società per azioni.
Con il nuovo secolo la Camera di Commercio fiorentina, dopo un periodo non particolarmente brillante, sviluppò un'attività più intensa e a più vasto raggio. Come si può leggere in un Annuario camerale del 1909, oltre alle varie funzioni di carattere generale, essa all'epoca:
- forniva agli operatori informazioni sulle tariffe doganali
- forniva informazioni sulle imposte di consumo e sulle tariffe di trasporto
- forniva, a richiesta, elenchi delle migliori ditte operanti nei diversi settori
- dava notizia dei prezzi delle merci
- forniva informazioni sulla moralità e solvibilità delle imprese
- dava notizia dei fallimenti e protesti cambiari
- dava comunicazioni sulle ditte e società legalmente costituite
- esercitava una attività di conciliazione e arbitraggio nelle controversie commerciali
- dava notizia delle principali aste ed appalti
- autenticava firme e rilasciava certificati di idoneità per concorrere agli incanti pubblici
- curava la pubblicazione di un Bollettino di informazioni
- teneva aperta al pubblico una Biblioteca, ricca di pubblicazioni ufficiali, annuari, cataloghi, ecc.
La Camera si impegnò molto nella redazione di memorie ed osservazioni, spesso indirizzate agli Organi governativi, e soprattutto nel sostegno attivo all'istruzione professionale, partecipando alla gestione e finanziamento di diverse scuole, tra cui la Scuola di Tessitura a Prato, la Scuola delle Arti decorative a Firenze, la Scuola Professionale femminile e quella Tecnica commerciale femminile, sempre a Firenze, e la Scuola professionale Pacinotti a Pistoia.
Questo maggiore impegno nel settore dell'istruzione, anche femminile, in chiave con il clima dell'epoca giolittiana, denotava un atteggiamento anche da parte della Camera fiorentina più aperto ai problemi sociali, tanto che ad un certo punto fu presa in considerazione perfino l'ipotesi - in verità poi non realizzata - di costituire sotto l'egida camerale una sorta di Camera del Lavoro, un organismo che desse voce e rappresentanza alla classe operaia.
Ebbe maggior fortuna, invece, un'altra iniziativa richiesta alla Camera dagli operatori commerciali che trattavano i principali prodotti alimentari sulla "piazza" di Firenze, e cioè l'istituzione di una Sala per le contrattazioni: quella che poi avrebbe preso il nome, col quale tuttora è conosciuta, di Borsa Merci. La Sala cominciò a funzionare nel 1905 ed ebbe sede al n.14 di via Condotta. Sempre nel campo delle "borse di commercio" si deve poi ricordare la legge del 1913 che riordinò le Borse Valori su scala nazionale, dando nuovo impulso alla loro attività.
L'azione di riforma aveva peraltro già toccato tre anni prima il sistema camerale, ancora fermo ai provvedimenti del 1862. Quella del 1910 fu una legge veramente innovativa per il sistema delle Camere di Commercio che videro ampliare notevolmente il loro ambito di competenza. Agli enti camerali, che assumevano formalmente la nuova denominazione di "Camere di Commercio e Industria", vennero attribuite molte nuove ed importanti funzioni, tra cui la redazione dei Listini dei prezzi, l'accertamento degli usi commerciali locali, la certificazione di origine delle merci.
Ma la novità più importante fu rappresentata dalla istituzione del Registro delle Ditte ed il relativo obbligo di iscrizione per chiunque, in qualunque forma, esercitasse una attività industriale o commerciale.
La riforma del 1910 conferiva alle Camere un prestigio fino allora mai avuto, anche se le poneva sotto una maggiore tutela e controllo da parte governativa. Ma ciò era una ovvia e necessaria conseguenza del fatto che le nuove ed accresciute funzioni attribuite alle Camere si configuravano come un'attività di tipo "pubblicistico". Il riconoscimento formale alle Camere di Commercio della qualifica di enti pubblici venne poi più esplicitamente dichiarato con una successiva legge del 1924, uno degli ultimi provvedimenti presi dal Parlamento Italiano, nel clima convulso che accompagnò l'esautorazione del Parlamento stesso e l'ascesa del fascismo.
Il ventennio fascista
Quasi subito il fascismo si occupò delle Camere di Commercio. Queste, dove ancora vigeva l'abitudine a recepire "dal basso" i problemi e le esigenze del tessuto produttivo locale per rappresentarli ai livelli più alti dell'Amministrazione, si collocavano male nel quadro di una concezione fortemente accentrata ed autoritaria sia delle Istituzioni che dell'economia. Ed infatti, già nel 1926, furono abolite con la legge che in loro vece istituiva i "Consigli provinciali dell'economia".
Questi ultimi ebbero fondamentalmente il compito di trasferire sul piano locale gli orientamenti centrali, secondo i concetti di una "economia disciplinata, controllata e in definitiva imposta", in armonia con gli "interessi della Nazione". Furono trasformati nei "Consigli provinciali dell'economia corporativa" e quindi, nel 1937, assunsero la definitiva denominazione di "Consigli Provinciali delle Corporazioni".
Ma le corporazioni fasciste erano cosa ben diversa dalle corporazioni delle "Arti" che avevano caratterizzato l'economia fiorentina dal Duecento al Settecento. Le antiche Arti medievali, raccogliendo i cittadini che avevano in comune un mestiere e gli interessi ad esso collegati, nascevano dal corpo vivo della società e proprio da questa concreta vitalità economica traevano la loro forza anche politica. Con le corporazioni fasciste si può dire che il rapporto sia completamente rovesciato: è la politica che, attraverso le corporazioni, esercita uno stretto controllo sull'economia. L'identità del termine "corporazioni" vuole sottolineare lo spirito "di corpo" che dovrebbe caratterizzare i diversi settori produttivi accomunando datori di lavoro e lavoratori. In realtà questi ultimi, seppure formalmente rappresentati nelle corporazioni, non hanno alcuna voce in capitolo. I loro rappresentanti, persone "gradite" al regime, hanno solo la funzione di avallare le scelte già compiute.
A Firenze, l'insediamento del primo Consiglio Provinciale dell'Economia avvenne nel giugno 1928, con una solenne cerimonia in Palazzo Vecchio. La sede rimaneva quella camerale, presso cui - per inciso - già dal 1922 era ospitato in un mezzanino il partito fascista. Sorto alla vigilia di una grande crisi economica internazionale (la crisi del '29), il Consiglio Provinciale ebbe un avvio non facile, come del resto quelli di tutte le altre province, anche a causa della struttura burocratico-amministrativa particolarmente macchinosa. La nuova funzione, più direttamente politica, si portava dietro come corollario una maggiore complessità di livelli di controllo e di procedure, che si andavano a sommare ai consueti compiti svolti ordinariamente dalla disciolta Camera di Commercio.
Fra le realizzazioni che meritano di essere ricordate vi sono: sul piano amministrativo, la trasformazione in Istituzione ufficiale della Borsa Merci, che aumentò notevolmente la propria importanza nell'economia fiorentina con i suoi mercati del martedì e del venerdì; sul piano delle strutture, gli interventi di ristrutturazione della sede sul lungarno con la sopraelevazione dell'edificio e la realizzazione del nuovo salone della Borsa Valori. Per il resto, come gli altri Consigli, anche quello fiorentino svolse un'azione fortemente e costantemente condizionata dall'evoluzione politica nazionale. Così, partecipò attivamente alla cosiddetta "Campagna del grano", fu particolarmente impegnato nell'attuazione dell'Autarchia, ad esempio sostenendo la nascita di nuove industrie come quella del Rayon, ebbe un ruolo di supporto allo sforzo bellico nel corso della Seconda Guerra Mondiale svolgendo compiti di requisizione, contingentamento e razionamento.
La caduta del fascismo, la lotta di liberazione nazionale e la fine della guerra posero fine anche all'esperienza dei Consigli provinciali delle corporazioni, dalle cui ceneri rinacquero le Camere di Commercio. La sede di quella fiorentina rischiò veramente di andare in cenere, stretta dal fuoco delle mine tedesche. Così Piero Bargellini, uno dei sindaci più amati dai fiorentini, descrive quegli eventi:
"Nella notte tra il 3 e il 4 agosto (1944, ndr) i ponti minati, tranne il Ponte Vecchio, saltarono e con essi saltarono le case di Por Santa Maria, di via Guicciardini, di via de' Bardi e di Borgo San Jacopo. La Camera di Commercio, che si trovava con la Borsa Valori sul Lungarno, nei pressi del Ponte alle Grazie, venne prima sgombrata dei documenti più importanti, poi scossa dalle mine e infine depredata durante la battaglia di Firenze, durata 25 giorni. Quando il Comitato di Liberazione nominò al posto del Prefetto fascista il nuovo Presidente e la nuova Giunta, era necessario non soltanto riordinare burocraticamente l'istituto in senso democratico, ma anche restaurare l'edificio".
Testo di Pasquale Ielo